Se la prima persona che incontri uscendo di casa la mattina si chiama Telemaco, forse il presagio è chiaro: devi prepararti a un’Odissea. E così è stato il mio rientro da Vergina ieri sera. Arrivata alla stazione Ktel di Salonicco intorno alle 21.15, ho aspettato tre quarti d’ora il primo dei bus che avrei dovuto prendere per tornare a casa e non perché la sera se ne riducono le corse ma perché, a giudicare dagli orari trovati sulla app del servizio di trasporto pubblico di Salonicco, sono saltate ben due corse. Ma questo era solo l’inizio. Appena prima di partire è salito a bordo un uomo con un braccio maciullato forse dal fuoco e ha iniziato a chiedere soldi a tutti, poi è stato il turno dei primi dei tanti che non credono nella mascherina. Intanto l’aria condizionata non riusciva a rinfrescare il caldo afoso della città e più personaggi notturni salivano e più avevo la sensazione di essere alle prese con la cosa più pericolosa fatta negli ultimi anni. Il viaggio è stato estenuante, un’ora da capolinea a capolinea con la stanchezza e il calo di zuccheri che si mischiavano al caldo e alla rabbia. Ma anche questo era solo l’inizio perché mi aspettava ancora il bus per arrivare sotto casa, con un passeggero senza mascherina dietro e uno accanto, con i timori di una donna sola in un paese di cui non conosce la lingua e che è pure molto sciocca perché aspetta il sospetto di aver perso la sua fermata per chiedere dove fosse la fermata stessa. E quindi scendi, fortunatamente in una piazza illuminata e con degli anziani sulla panchina, attraversa la strada e aspetta una ventina di minuti per l’ultimo bus. Che arriva ma l’autista non sa quale sia la fermata che ti serve, per fortuna nel gruppo di ragazzini forse non più di ventenni c’è una ragazza che sa dove devo scendere, che parla inglese e che è molto contenta di aiutare. Talmente disponibile che non riesco neanche ad arrabbiarmi perché sono una delle poche con la mascherina sull’autobus. Quando arrivo finalmente a casa è ormai mezzanotte e mezza e io sono uscita dal museo di Vergina ormai da nove ore.

Per avere un’idea del viaggio: quella striscia bianca sono le case di Salonicco, la stazione Ktel è grossomodo nella parte più estrema a sinistra, la foto è stata scattata pochi chilometri dopo casa di Iota

Dopo la giornata di ieri oggi non avevo alcuna voglia di seguire il programma che mi ero fatta di andare in città per musei. Ho quindi optato per fare le mie cose con calma e continuare il viaggio antropologico nella vita di un gruppo di pensionate locali. Con Iota siamo uscite, un salto in farmacia a prendere dei test rapidi per mia sorella che arriva stasera e domani andrà a un matrimonio qui vicino e uno per me che dopo il viaggio in bus di ieri preferisco essere sicura. Poi un dolcificio, di quelli in cui si fabbricano quei dolci a base di pasta fillo, miele e noci tipici di questa zona e infine un bar di Perea per l’appuntamento del mercoledì quando le ragazze della ginnastica amiche di Iota si incontrano per prendere il caffè insieme. Scelgono sempre lo stesso bar, anche ora che è chiuso per ferie, si portano il bere da casa e oggi, poiché il 15 è stato l’onomastico di Iota e della sua amica Maria, le festeggiate portano dolci e una pita al formaggio per celebrare la ricorrenza con chi non c’era a Ferragosto. Sono un gruppo di una quindicina di donne pensionate, truccate e coi capelli tendenti al biondo, che si raccontano la settimana e le vacanze per chi ci è stato. Ridono all’ombra e al fresco della veranda esterna del bar che anche se chiuso ha lasciato i suoi tavolini e sedie lì.

Ogni giorno imparo una parola nuova, oggi colgo l’occasione di un bicchiere di succo di arancia per chiedere come si dice arancia in greco: portokali. E non posso che pensare ai portogalli, la parola napoletana che indica le arance, a indicare i rapporti continui all’interno del Mediterraneo.

Intanto accanto a me si siede una signora che avrebbe sempre voluto viaggiare in Italia ma non lo ha mai fatto, si è sposata giovane, ha avuto figli e il marito non voleva viaggiare all’estero. Ora da sola non se la sente e non ha mai trovato un’amica con cui partire. Mi dice che capisce un po’ l’italiano però comunica meglio in inglese. Mi chiede anche se è la prima volta che vengo in Grecia e le dico di no, che ho amato Creta e le spiego che abituata alla Sardegna avevo difficoltà a trovare mari che mi dessero soddisfazione. Mi dice che la signora che le siede davanti è di Creta e facendo da traduttrice mi fa sapere che a quanto pare sardi e cretesi sono molto simili caratterialmente.

Mentre andiamo via dico a Iota che avevo notato quasi sempre solo uomini ai bar ma ci tiene a dirmi che non è vero, forse solo nei paesini.

Dopo un riposo pomeridiano torniamo al mare, compagnia di sempre, compresi i cani randagi che da quanto ho capito sono stati sterilizzati, curati e vengono nutriti da alcune di queste signore ma poi nessuno se li porta a casa.

E ora sono qui, in spiaggia, in una giornata senza vento a chiacchierare un po’ in inglese con Christos, un amico della compagnia. Mi chiedono tutti se è la prima volta che vengo in Grecia e notano la similitudine tra greci e italiani. Sono divertiti dai miei tentativi di dire due parole in greco e io mi sento accolta in questo paese a qualche mare di distanza da casa mia. Christos mi ricorda indirettamente un’altra cosa che ho notato: la settimana scorsa era salito al nord, verso Alexandropolis e aveva notato una Lamborghini, si era stupito perché non se ne vedono molte. E infatti avevo fatto molto caso alle auto nei dintorni: mentre in Italia sembrano quasi tutte nuove, qui le auto nuove scarseggiano (e i trattori abbondano), sembra di essere quasi fuori dal tempo.

Nel frattempo il mare si riempie di persone che non fanno bagni, chiacchierano a lungo in acqua, facilitati anche dalla scarsa profondità fino a largo. Arriva anche il pope ortodosso con la sua barba lunga, il bastone per arrivare in acqua e una pancia che non finisce più. Entra in acqua con un gonnellone nero e viene raggiunto dalla moglie e da altre donne che non so chi siano. Prima di tornare a casa ho fatto un altro bagno, mentre tornavo a riva mi si è avvicinato il pope e ha iniziato a parlarmi in greco. Io gli ho detto che ero italiana e abbiamo scambiato qualche parola, più a gesti che a parole ma ho scoperto come si dice nome (onoma, e forse ho capito perché si dice onomastico) e sono uscita dall’acqua divertita da come si possa entrare in contatto con le persone anche sapendo solo poche (o nulle) parole di una lingua.

Prima di tornare a casa faccio due passi lungo la spiaggia, poi provo di salutare le amiche di Iota nel mio stentatissimo greco, loro ridono e cercano di insegnarmi frasi semplici che se non vedo scritte, quando superano le due parole dimentico in un attimo.

Il pope fuori dall’acqua

Ora sono in casa, sciacquerò i vestiti che ho lavato a mano che essendo molto pochi hanno bisogno di cure quasi quotidiane e poi mi metterò in terrazzo ad attendere il messaggio con cui mia sorella mi comunicherà che il suo volo da Londra è atterrato e posso andare a prenderla. Ci incroceremo meno di 24 ore ma quando vivi in paesi lontani, in tempi di Covid poi, anche questo è un piccolo regalo. Lei è stata invitata a un matrimonio a Vourvouru, in Calcidica, domani, io ho cambiato i miei programmi di viaggio per poterla incontrare. Domani prendiamo la macchina di Iota, una Fiat Punto con 295mila chilometri e con Iota e una sua amica ci dirigiamo a sud dove l’altra figlia di Iota ha già stabilito il menù per domani: gemistà. Credo che passerò più tempo a tavola che al mare ma se volevo fare l’esperienza greca, la sto decisamente facendo.

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