
La terza vita comincia in una frazione di Reggello alle 5.45 circa di una domenica mattina con una battuta mentre facciamo colazione. Il contenuto della battuta non è importante ma l’effetto sì, ridere insieme crea un’atmosfera rilassata e distesa. Fondamentale se non si è una persona mattiniera e neanche così a suo agio nelle cucine che non conosce.
Alle 6.30 ci siamo lasciate alle spalle una Reggello coperta da una coltre di nebbia e abbiamo iniziato la nostra lunga marcia: 30 chilometri con 1000 metri di dislivello per arrivare a Quota. Avevamo percorso poche centinaia di metri ridendo e scherzando quando M. ha interrotto il clima festoso per dirci che lei tutte le mattine si prendeva un’ora di silenzio approfittando di un momento in cui molti ancora dormono ma che se io e J. volevamo continuare a parlare potevamo farlo, tanto lei si sarebbe allontanata. Con M. davanti a noi di una decina di metri anche J. ed io abbiamo abbracciato il silenzio. Fino a un certo punto in realtà, nella mia testa una canzone risuonava ossessivamente. Au soleil, sous la pluie, a midi ou a minuit, il ya tout ce que vous voulez aux Champs-Elysees. Talmente ossessivamente che ho accolto la fine dell’ora di silenzio come una liberazione dal rumore piuttosto che dalla sua assenza.
I pellegrini moderni hanno a disposizione strumenti che i pellegrini di un tempo non avevano: Gps e app dedicate sul cellulare con mappe e tutte le informazioni del caso sul reperimento di cibo e luoghi in cui dormire lungo il percorso. Dopo due ore di cammino e circa 600 metri di dislivello abbiamo però appreso che non sempre queste app sono aggiornate e che il fatto che siamo riuscite a recuperare qualcosa da mangiare al campeggio Don Bosco di Cascina Vecchia è stata più fortuna (o divina provvidenza, a seconda dei punti di vista) che altro. La sera prima infatti si era tenuta una festa ed erano avanzati degli affettati e del pane che il giovane prete responsabile, assonnato e svegliato da un giovane arrivato poco dopo di noi, ci ha donato.


La conversazione intanto si manteneva leggera ma superficiale, forse inevitabilmente; generalmente in francese, nei miei momenti di stanchezza anche in italiano. Magari M. mi parlava del Gattopardo che io non avevo letto mentre lei sì, io allora le parlavo del mio trauma legato alla lettura integrale dei Miserabili a tredici anni che lei, come più o meno tutti i francesi, aveva invece letto solo in una riduzione. Intanto chilometro dopo chilometro cresceva una confidenza tale per cui soprattutto con M. iniziavamo a prenderci in giro. Dai toni a volte perentori e autoritari con cui ci comunicava lo svolgimento della tappa ai miei occhi sgranati quando si parlava di cibo in termini per me inconcepibili, dalle espressioni ricorrenti che non mancavo di notare nel suo eloquio al mio essere molto italiana avevamo trovato un terreno comune che rendesse il cammino anche piacevole oltre che fisicamente impegnativo. Qualche volta poi J. rimaneva indietro (io no, troppo orgogliosa!) e allora iniziavo a conoscere sprazzi di M., del suo cammino, della sua scelta di fare la variante de La Verna per rendere il percorso un po’ più impegnativo rispetto al tratto della Val d’Orcia, dei suoi studi in Italia, del suo lavoro di insegnante al liceo, dei suoi interessi, del suo aver giocato a calcio, di avere anche lei amato una delle migliori serie che mi sia capitato di vedere su Netflix (Call my agent o Dix pour cent, per chi fosse curios*) in cui una delle protagoniste è una lesbica piuttosto promiscua, e iniziavo a ricostruire una personalità che niente aveva a che fare con la mia idea pregiudiziale di una ragazza profondamente credente. Quando però poco dopo la lunga sosta di pranzo, in mezzo a una faggeta le due sorelle si sono prese una mezz’ora per dire il rosario ho rallentato il passo per non sentire, tanta era l’inquietudine e poca la mia comprensione della fede. Lo anticipo ma qualche vita dopo mi è stato spiegato anche il ruolo del rosario durante il cammino.

La tappa intanto non finiva più, i dislivelli erano pressoché finiti ma entravamo ed uscivamo da boschi senza raggiungere mai Quota, la piccola frazione di Poppi termine della nostra tappa. Intanto io acceleravo il passo perché ero entrata nella fase in cui volevo assolutamente arrivare, le sorelle dietro di me parlavano di organizzare pellegrinaggi in notturna, io un po’ capivo ma molto il suono delle foglie calpestate faceva giungere il loro francese rapido pressoché incomprensibile. Quando a pomeriggio inoltrato abbiamo finalmente scorto le prime poche abitazioni di Quota è stata una festa interiore.
Abbiamo raggiunto il bar alimentari del paesino per prendere le chiavi della vecchia scuola in cui avremmo dormito e fare un po’ di spesa. Le sorelle parlavano con il proprietario francofono dell’alimentari, io raccontavo del mio passato calcistico alla moglie. Fuori, seduti ai tavolini, alcuni uomini ci guardavano con sincera curiosità. Quando sono uscita uno di loro, sulla settantina, mi ha chiesto cosa facessimo lì, cosa facessimo nella vita. Dopo poco è entrato nell’alimentari e ci ha offerto una bottiglia di vino. Abbiamo accettato a patto che la bevesse con noi, che ci desse giusto il tempo di andare alla scuola a posare gli zaini e la spesa.
La vecchia scuola era costituita da un ingresso, un’ampia stanza con due brandine (anche questa volta è stata M. a dormire per terra), una cucina, un ripostiglio con lavandino, un bagno senza doccia. Siamo entrate ridanciane, come ho preso il telefono tutta la leggerezza del giorno è svanita: un messaggio di mia mamma mi aggiornava sulle condizioni di mia nonna, già molto precarie. Ero stata incerta se partire o meno il giorno prima, mi ero decisa per il sì perché avevo veramente voglia di camminare e perché in fondo non ero troppo lontana: tra treni, bus o qualcuno che mi veniva a prendere, sarei stata a Scandicci in poche ore. Nel messaggio mia mamma mi suggeriva di rientrate senza scapicollarmi ma appena ragionevolmente possibile.
Ragionevolmente possibile era il giorno dopo quindi ho nascosto le mie tristezze dietro un sorriso e ho detto alle sorelle di non preoccuparsi, che ero preparata alla notizia e che una volta appurato che avrei passato la notte a Quota tanto valeva godermela e che non mi sarei persa l’aperitivo con Enrico per niente al mondo. E bene ho fatto.
Tra un pezzo di schiacciata calda e un sorso di vino Enrico ha risposto alle nostre domande sulle varie lapidi legate al macabro passaggio dei tedeschi in ritirata durante la Seconda Guerra Mondiale che avevamo visto, ci ha raccontato un po’ della sua vita e un po’ di quella del padre e dello zio prigionieri di guerra. Enrico parlava con un accento toscano verace, M. aveva fatto l’Erasmus in Italia e un po’ capiva, J. afferrava pezzi qua e là, io quando c’era bisogno traducevo, sia per le ragazze che per lui.
Intanto i bicchieri si riempivano fino a finire la bottiglia, con M. ormai scherzavamo come se ci conoscessimo da sempre ed Enrico partiva a citare Dante e Mastro Adamo, il falsario di Pratovecchio messo all’Inferno, che fu lapidato in località Omomorto (da lì il toponimo) rispondendo così a uno dei miei grandi interrogativi ogni volta che mi è capitato di vedere quel cartello di località. Nel prenderci in giro tra una traduzione e un’altra, lievemente ubriaca, iniziavo a sedimentare il senso di questi giorni in cammino: gli incontri che si fanno e la gioia che regalano quando si esce dai confini della propria ripetitiva quotidianità.

Ripetitiva quotidianità che però non ero ancora pronta a lasciar andare del tutto e quando, prima di cominciare a mangiare, le sorelle hanno recitato una preghiera mi sono ritrovata di nuovo sballottata in un mondo di cui mi mancavano molti tasselli. La preghiera della cena l’avevano letta in un quadro a Cascina Vecchia e se l’erano fotografata per non dimenticarla. Per quanto strana fosse per me la situazione, la preghiera era comunque più che condivisibile.
Dopo cena, una ratatouille preparata dalle due sorelle e del prosciutto e melone, ci siamo lavate a pezzi nel lavandino del bagno, una di quelle cose che quando si arriva ai piedi richiede una certa dose di atletismo. M. mi ha fatto qualche domanda sulla nonna e su come i miei zii avessero vissuto il suo essere mamma di così tanti figli oltre a loro. Lì per lì alcune sue osservazioni mi avevano innervosita, come se non spettasse a lei capire le dinamiche della mia famiglia, solo dopo circa un mese ho realizzato che forse in quelle domande, come spesso accade, c’era anche una parte di sé, una di tanti figli.
Mi aspettava però una notte pressoché insonne e un poco infreddolita, con lo spirito del cammino che si era ormai affievolito come il respiro di mia nonna.

La mattina abbiamo fatto una colazione un po’ arrangiata con dei biscotti comprati all’alimentari il giorno prima e del tè e caffè che M. aveva recuperato in qualche suo passaggio precedente. Abbiamo mangiato sedute per terra sul pianerottolo dell’edificio, davanti a noi una distesa di verde. Entrambe le sorelle erano scalze e sulle unghie dei loro piedi stava ben visibile uno smalto probabilmente semi permanente. Almeno quello di M. doveva esserlo poiché ormai ricopriva giusto la metà dell’unghia che era rimasta da quando se lo era messo, l’altra l’aveva probabilmente via via tagliata. Io ero seduta un po’ dietro di loro e le osservavo cercando di carpire il più possibile i loro discorsi. Da come le ho descritte finora uno potrebbe pensare a chissà cosa, magari l’ennesima situazione in cui pregare, in realtà parlavano di peli sulle gambe e di necessità di toglierli. Forse commentavano anche lo smalto di M. Argomenti comunque decisamente molto terreni e poco spirituali.
Più passava il tempo e più mi rendevo conto che associavo la fede a personalità grigie e castigate, totalmente fuori dal mondo. M. e J. invece mi sembravano solari, serene, piene di interessi e di vita, totalmente calate nel nostro tempo e fondamentalmente non tanto diverse da me, religiosità a parte. Giudicavo senza sapere che la fede viene in tante forme e colori, esattamente come le persone. Stavo cominciando a capire inoltre che una persona non è la sua fede ma la fede è una delle parti che compongono una persona.

Quando siamo partite sono rimasta indietro di qualche metro, più per caso che per volontà, ma visto il mio stato di quieta malinconia non ero comunque molto di compagnia. Le sorelle parlavano tra di loro, troppo lontane perché percepissi qualcosa di più di un cinguettio. Avevano deciso di rimandare l’ora di silenzio a dopo la mia partenza, io però avevo ormai perso ogni spirito e procedevo zitta in una sorta di trance in cui mi pareva più di fluttuare che di camminare. Non ci siamo dette molto nel paio d’ore che abbiamo trascorso insieme sulla strada per Bibbiena dove io avrei preso il treno. Solo in prossimità della stazione e in attesa al binario abbiamo ripreso un po’ a scherzare, come se non le stessi lasciando per andare al capezzale di mia nonna.
Quando le ho salutate dal finestrino del treno ho cambiato nuovamente vita. Addirittura mi sentivo quasi come se quella che avevo vissuto fino alla ricezione del messaggio di mia madre non fosse mai avvenuta.
Dopo aver preso un secondo treno al volo, una tramvia, una doccia, una macchina, nel primo pomeriggio sono entrata in un’altra vita.