La seconda vita inizia più o meno dove finisce la prima.
Quando sono uscita per andare a lavorare, M. si è alzata, ha ritirato la biancheria stesa, ha scritto il suo diario di viaggio ed è partita per incontrare la sorella in arrivo da Parigi. Hanno preso un treno e sono tornate laddove aveva lasciato il suo cammino il giorno prima. Prima di cena mi ha mandato una foto del loro pernotto: dans un potager, à la belle étoile. In un orto, sotto le stelle.
Apro una parentesi. Quando M. mi aveva contattata a giugno era stata piuttosto vaga sul suo percorso, mi aveva giusto detto che cercava un posto letto sulla via di Roma e che sarebbe stata attrezzata con materassino e sacco a pelo. Quando è arrivata ho poi scoperto di più. Intanto che avrebbe proseguito ben oltre Roma, poi che stava arrivando a piedi dalla Francia, infine che quando non camminava sola bussava alle porte e chiedeva ospitalità. La sera in cui ha lasciato Firenze con la sorella aveva evidentemente bussato a una porta e aveva trovato ospitalità in un orto recintato, se non altro al riparo dai cinghiali. Chiusa parentesi.
La foto dei due sacchi a pelo stesi sopra un materassino in mezzo a un orto ha probabilmente innescato un effetto domino perché, al mio messaggio ammirato di risposta, M. ha ribattuto che se avessi trovato qualche giorno di vacanza sarei stata benvenuta a camminare con loro. Quando la sera sono tornata a casa e ho trovato il bigliettino con la preghiera di Gandhi ho buttato giù la mia risposta. Che alla fine avevamo avuto poco tempo per parlare di ateismo e spiritualità ma che si può essere in linea coi valori cristiani anche essendo atei. Poi chiedevo indicazioni riguardo al loro itinerario perché in effetti avevo un imminente fine settimana lungo a disposizione e, chissà, magari, mezzi di trasporto e ricerca di un sacco a pelo adeguato permettendo, le avrei raggiunte davvero. In realtà ero già preda di una sottile scarica elettrica che diceva: VAI!
E così sono andata. Senza sapere bene perché, fondamentalmente perché l’istinto mi diceva di partire senza farmi troppe domande. In realtà svanita l’euforia della decisione istintiva avevo iniziato anche a pormi degli interrogativi. Che ci facevo con due quasi perfette sconosciute in mezzo a un pellegrinaggio religioso? Ci saremmo trovate bene? Quanti anni avevano posto che sicuramente erano parecchi in meno dei miei? Quanto camminavano al giorno? Perché stavo andando? Sarei stata in grado di reggere tre giorni senza sapere assolutamente niente di come fossero organizzati se non che il sabato alle 18 le ragazze sarebbero andate a messa (ma io potevo anche non andare), che la tappa della domenica sarebbe stata lunga e che il lunedì saremmo arrivate a La Verna?
Quali che fossero le domande, le ho accantonate e sono partita. Studiato il loro itinerario, avevo scelto io il luogo di appuntamento: curiosamente era il bar/ristorante teatro di tanti pranzi pre partita con l’ultima squadra di calcio in cui ho militato. Quindi ho preso un treno fino a Rignano, ho camminato qualche chilometro a tratti anche sotto una leggera pioggia e ho trovato le due sorelle al tavolino di un bar che avevano appena finito di sorseggiare un cappuccino. L’incontro con M. era stato talmente fugace e al contempo pieno di momenti da ricordare che i tratti del volto li avevo un po’ sfumati in mente e le ho riconosciute più per la presenza dello zaino che per i loro volti. Quando ci siamo presentate con J. , l’altra sorella, ho avuto un momento di imbarazzo. Al mio nome aveva risposto “enchantée” e mi era sembrato un po’ pomposo come approccio. Solo dopo ore, quando le ho spiegato il mio sbigottimento iniziale, abbiamo realizzato come le parole utilizzate fuori dalla loro lingua di origine possano assumere significati diversi e che con quel “enchantée” mi aveva risposto solo un cordiale “piacere”, niente a che vedere coi salamelecchi a cui è associata la stessa parola utilizzata in italiano.
Finite le presentazioni ci siamo messe in cammino lungo la trafficata strada regionale che conduce a Leccio, una frazione di Reggello più nota per la presenza di un outlet del lusso che per il passaggio dello Chemin d’Assise che stava percorrendo M. nel primo tratto del suo pellegrinaggio. Ai bordi della strada i girasoli guardavano a terra, osservandoli cominciavamo quello che poi si è rivelato un duraturo scambio linguistico in cui ci traducevamo certe parole in entrambe le lingue. In lontananza invece il castello di Sammezzano si stagliava imponente sulla collina e io, alla ricerca di un senso alla mia presenza, cominciavo a snocciolare le poche nozioni che sapevo in proposito, dimenticandomi peraltro che M. tendeva a fare domande che smascheravano la superficialità delle mie conoscenze. Così tra un tournesol e un accenno allo stile orientalista ci siamo trovate sotto un improvviso scroscio d’acqua. Avevamo giusto appoggiato gli zaini a terra per tirare fuori i k-way quando una signora si è affacciata da casa sua invitandoci ad entrare. Avevo appena assistito alla prima delle rivelazioni sulla sostanziale disponibilità e curiosità dell’essere umano.
Silvia (il nome potrebbe essere anche inventato, non lo ricordo più) ci ha offerto dell’acqua, domande sul nostro percorso e, davanti ai nostri interrogativi riguardo le numerose e professionali foto appese alle pareti, ci ha aperto le porte dello studio fotografico del padre. Quando ha smesso di piovere ci siamo salutate e addentrate per il bosco nei dintorni del castello di Sammezzano chiacchierando un po’ del più e del meno, forse un po’ alla ricerca di un terreno comune che, in effetti, al passare dei chilometri, riuscivamo a trovare. Quindi se per i primi chilometri ho continuato a chiedermi perché fossi lì (e la curiosità sulla mia presenza era reciproca), mentre cercavamo di cogliere fichi maturi da un albero sulla strada con M. che mi correggeva la pronuncia della parola muette (“muta”, da non confondere con mouette, “gabbiano”), iniziavo a pensare che sicuramente eravamo in cammino per motivi diversi però le ragazze erano piacevoli e divertenti e per ora poteva bastarmi, io ero lì per osservare.

La tappa finiva alla Pieve di Sant’Agata, appena sotto Pietrapiana, dove avremmo dormito la notte. Ad accoglierci abbiamo trovato due preti: uno, sulla quarantina, era uno dei parroci che ruotava insieme ad altri nelle parrocchie della zona, l’altro, più anziano, era suo ospite. In questo primo incontro ho avuto chiara la mia non appartenenza a quel mondo. M. raccontava che sul cammino aveva ogni giorno una prova della bontà di Dio, quando il prete più anziano ha guardato verso il cielo mi sono sentita quasi in imbarazzo, del tipo “dove sono capitata?”. Ma avevo deciso di vivere ogni momento con la curiosità di chi non sa niente, senza giudicare, e, dopo aver messo su la mia faccia più imperscrutabile (spero), mi sono lasciata guidare su per le scale della canonica verso la stanza con due letti (M. avrebbe dormito per terra sul materassino) che ci avrebbe ospitate per la notte.

Giusto il tempo di posare gli zaini e siamo ripartite in macchina verso la pieve di San Piero a Cascia dove il prete più giovane avrebbe detto messa. Eravamo in anticipo e nell’attesa mi sono lanciata verso la cosa più vicina a quella che è stata per più di un decennio la mia religione domenicale: il campino dell’oratorio adiacente alla chiesa. Quando dico lanciata, intendo proprio lanciata perché non ho camminato verso il pallone al centro del campo, ho proprio corso, nonostante la decina di chilometri sulle gambe. Ma anche la questione del calcio occuperà un’altra vita. Per ora basti sapere che mi sono sentita con la stessa gioia di una bambina e che ho abbandonato il campo giusto in previsione dei molti chilometri del giorno successivo, e poi perché sono arrivati dei ragazzini e mi è parso doveroso lasciare il campo a loro per tornare dalle due sorelle che nel frattempo si erano sedute su una panchina di fronte alla chiesa in attesa delle 18. Ho tirato fuori anche io il libro che stavo leggendo ma ho finito per cominciare a discorrere di fede con M. molto interessata al mio percorso e a mia madre che alla mia domanda sull’esistenza di Dio (legata alla scoperta dell’inesistenza di Babbo Natale, Befana, fatina dei denti) mi dice che è questione di fede, che se ci credo c’è ma se non ci credo non c’è. La conversazione stava per entrare nel vivo quando uno sguardo all’orologio ha interrotto lo scambio: mancavano pochi minuti alla messa. Così le ragazze sono entrate in chiesa mentre io sono andata a cercare una gelateria in cui acquistare del gelato da portare a cena.
La cena, prima della pasta al pomodoro e poi del riso da mangiare con una sorta di stufato vegetale siriano, è stata preparata da una famiglia di rifugiati siriani giunti in Italia tramite corridoi umanitari. In attesa di terminare i lavori nell’appartamento che era stato assegnato loro, erano ospiti nella canonica. Il figlio maggiore, laureato in economia, lavorava per Unilever; il minore, in attesa dei documenti per terminare gli studi universitari in chimica, dava una mano facendo sorveglianza al campo da calcetto dell’oratorio. Tutta la famiglia sentiva un debito di riconoscenza tale nei confronti dell’Italia che sperava di trovare un giorno il modo di restituire quel che aveva avuto. Per me erano storie che uscivano dalla televisione e diventavano reali, persone in carne e ossa con un passato, aspirazioni, desideri, lo stesso diritto a vivere che avevo io. La presenza di questa famiglia, musulmana benché non praticante, all’interno di un programma di accoglienza gestito dalla curia ha continuato lo scricchiolamento delle mie convinzioni sull’universo cattolico già cominciato a partire dal mio incontro con M.
La serata è stata gioiosa e piena di scambi ma la frase che più mi è rimasta impressa, tornando più volte nelle settimane che sono seguite, è quella che mi ha detto un terzo parroco che risiedeva nella canonica: secondo lui le persone si dividevano in due categorie: quelle che cercano e quelle che hanno smesso di cercare. Lì per lì ne ho dato un’interpretazione religiosa, legata alla ricerca di Dio, col tempo ne ho apprezzato il valore universale, dopotutto cercare può anche significare essere curiosi, non fermarsi allo status quo, avere voglia di esplorare mondi sconosciuti. A pensarci bene, non era tanto diverso da quello che stavo cominciando a fare io. Però probabilmente ero ancora in una fase embrionale di questa ricerca, mi sentivo un’osservatrice esterna che non partecipava. Quando prima di dormire le due sorelle si sono messe ad elencare le cose che avevano amato della giornata, non me la sono sentita di aggiungere anche le mie, non ero ancora pronta a condividere tutta quella profondità. Addirittura ho apprezzato il fatto che bisbigliassero così da non sentire nemmeno quali fossero le cose che avevano colpito loro. Va bene la vita diversa ma con calma.
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