Essendo andata a dormire prima delle 21, anche a non mettere la sveglia era prevedibile un risveglio presto. A dirla tutta, purtroppo, non era neanche così imprevedibile il messaggio che ho trovato sul telefono quando ho aperto gli occhi. Era arrivato alle 5, circa un’ora e mezza prima, ed era di mio padre: venti minuti fa la nonna ci ha lasciati. Parlerò dei tre giorni che sono seguiti in un’altra puntata, per ora, per dovere di cronaca, ripropongo il testo che ho scritto quel giorno. Per dovere di cronaca, forse devo fare anche un breve cappello iniziale su chi fosse mia nonna.

Giulia Daneo (con l’accento sulla “a”) Lorimer, figlia di un diplomatico piemontese e di un’americana di origini franco-costaricane, sposata con George H. Lorimer, un americano di origini scozzesi. Dopo i primi anni di matrimonio negli Stati Uniti, Giulia e George si trasferirono a Firenze e poi a Scandicci a metà degli anni ’50. Decisero di mettere la loro ricchezza a disposizione della comunità, prima aprendo la loro casa ad artisti, poeti e scrittori, in seguito costruendo una comunità aperta insieme ad un piccolo gruppo di preti che negli anni Sessanta riportavano la predicazione del Vangelo alle sue origini: dare voce a chi non ne ha. Nel frattempo nacquero anche 11 figli, altri ne vennero presi in affido e la porta di casa di fatto era aperta anche un po’ a chiunque ne avesse bisogno. Quando nel 1975 i miei nonni si separarono, Giulia trovò rifugio nella musica, sua passione mai sopita, fondando i Whisky Trail, gruppo di musica celtica con cui ha suonato e cantato fino a pochi anni fa. A Firenze e Scandicci erano una sorta di istituzione e più di una volta e nei contesti più disparati mi è stato chiesto se fossi imparentata con la Giulia Lorimer. Io rispondevo di sì provocando reazioni di gioioso stupore e amore per questa nonna che condividevo con una schiera di cugini e, a quanto pare, non solo.

Quando lo scorso dicembre mia nonna ebbe un’ischemia ed io avvertii il primo sentore di avvicinamento alla perdita, sentii il bisogno di scrivere cosa lei fosse stata per me. Quello che segue è un ricordo di getto e parziale scritto all’epoca e poi corretto nelle sue storture di sintassi il giorno in cui la nonna è morta. Rimasi a lungo in dubbio se renderlo pubblico o meno ma, poiché piacque a mio padre, ne feci un post su Facebook. Le risposte di apprezzamento e condivisione che ricevetti da una miriade di persone diverse tra le quali molte a me sconosciute, mi diedero la misura di quel che mia nonna avesse rappresentato non solo per me.

Ho sempre pensato al lutto come a una questione privata ma la Nonna Giulia non è mai stata una questione privata. Non può esserlo quando hai passato buona parte della tua vita a rispondere affermativamente alla domanda “Lorimer? Sei mica imparentata con la Giulia Lorimer?”. Anche quando ormai la nonna non si vedeva in pubblico da un po’ la domanda ha continuato a inseguirmi.

Io di quella nonna sono sempre stata fiera, anche se non è mai stata l’immagine della nonna italiana. Perché no, la Nonna Giulia non è stata la nonna dei pranzi buonissimi, delle ventimila lire per comprarti il gelato, dei pomeriggi parcheggiati in casa sua in attesa che i genitori venissero a prendermi. Non era una nonna canonica (e come poteva esserlo con tutti quei nipoti?), non era una donna canonica ma era pur sempre una nonna e soprattutto una donna.

Le nostre case erano comunicanti, apriva la porta ed entrava. Soprattutto negli ultimi anni a volte veniva anche solo per un po’ di compagnia, si inventava una scusa per telefonare e attraversare il ripostiglio che separava le nostre case, ma noi lo sapevamo che lo faceva solo per non sentirsi sola. A volte invece chiamava perché non si raccapezzava con la tecnologia e qui era una nonna canonica.

Poi però quando saliva sul palco con i Whisky Trail non era più quella nonna che cercava di stare al passo coi tempi senza riuscirci del tutto. Sul palco erano gli altri a dover stare al passo con lei, con i suoi occhi azzurri luminosi, con le vibrazioni della sua voce limpida da contralto, con quelle sfumature profonde di un desiderio per qualcosa che risaliva all’origine del mondo. Quanti fiati sospesi quando anno dopo anno continuava ad allontanarsi dal microfono per avvicinarsi al bordo del palco a passo di danza, sempre più appesantita ma con la grazia dell’arte a guidarla.

La mia nonna atipica che prima che nonna era stata una mamma atipica di infiniti figli, i suoi e quelli che aveva accolto nella grande casa sul poggio. E allora forse a me non interessavano i super pranzi e le ventimila lire, io avevo l’onore di essere la nipote di una mamma un po’ bizzarra di Scandicci. Quella Scandicci che aveva scelto nel 1956 con mio nonno.

Questi due figli del mondo che in Toscana non avevano alcuna radice avevano scelto Scandicci e le sue colline come luogo in cui piantare i semi della loro vita insieme. Poi è andata come è andata, del resto sono tante le vite che vanno così, indipendentemente da quello che c’è stato prima e dalla grandezza delle anime in gioco, ma nei vent’anni che hanno trascorso insieme su queste colline quasi spocchiose nella loro perfezione, avevano cercato di essere di più di una famiglia unita dal sangue e da un certificato di matrimonio. Artisti, poeti, ragazzi scapestrati, scappati di casa, c’era posto per tutti nella grande casa sul poggio. Prima da soli poi con quel prete, forse un po’ atipico anche lui, Don Masi che quando qualche anno fa è andato a trovare la Nonna Giulia dalla memoria già precaria sembravano di nuovo due giovani idealisti che prima di cambiare il mondo hanno provato a rendere accogliente il luogo in cui vivevano ogni giorno.

Mia nonna ha sempre avuto questo senso di comunità, la casa aperta a chiunque, la famiglia numerosa, il Centro Arles. Portatrice di quella tradizione iniziata da sua madre negli ultimi anni della guerra trascorsi a Bricherasio. La villa requisita in parte dai tedeschi ma la filanda aperta a chiunque ne avesse bisogno, senza distinzione. E poi quando partirono per gli Stati Uniti, il grammofono e la stanza del ping pong lasciati a disposizione della cittadina perché che senso ha tenere un bene chiuso se in quel momento non lo si può usare? Mia nonna veniva da qui, dal dare per dare, dall’essere disponibili, dall’amore e dalla curiosità per l’altro.

Mia nonna è stata una donna poligonale, dalle varie sfaccettature. E’ stata la nipote del ministro, la figlia dell’ambasciatore, la moglie dell’americano, la benestante che lavorava per servire la comunità e non perché avesse bisogno di farlo, l’esaurita che dimenticava la figlia in banca e quanto ci faceva ridere da bambini quella storia prima di comprenderne il dramma umano di donna che celava. Mia nonna è stata Giulia. Nella seconda parte della sua vita è stata la cantante che a 80 anni suscitava l’entusiasmo dei suoi nipoti ventenni e dei loro amici che non capivano il gaelico (e a volte neanche l’inglese) ma cavolo, quanti possono dire di avere una nonna che è diventata anche quella di chissà quanti altri nipoti-fan che si è fatta lungo la strada?

Quando nel 2006 riprendemmo a fare le grandi feste organizzate da cugini nel giardino della grande casa sul poggio, intorno a mezzanotte si aggirava bevendo il suo secondo inconsapevole Negroni lamentandosi che nessuno danzasse. Quando nel 2010 facemmo l’ultima e più memorabile di quelle feste lei c’era anche alle 3 di notte, sulla parte rialzata del piazzale che fungeva da palco. Stava lì e guidava qualche centinaio di ragazzi felici ubriachi di birra in improvvisate danze irlandesi come se non avesse potuto fare altro. Ma era il suo luogo quello, il luogo in cui diventava regina. Poi scendeva dal palco ed era una placida quasi ottantenne che alle 7 del mattino svegliava un giovane che si era addormentato su un pouf di foglie dopo la festa per proporgli un baratto: io ti accompagno a casa ma tu mi aiuti a stendere la biancheria.

Quanto abbiamo riso delle sue minestre di cavolo che appestavano la casa e della peperonata “buonissima!” che avevamo visto stazionare per un’intera giornata sulle scale. Del bicchiere di vino e dei formaggi che non mancavano a nessun pasto e della memoria che a volte le giocava scherzi. Poi un giorno quella memoria ha iniziato a farci paura portandola piano piano nel suo abisso.

Per alcuni anni l’ha tenuta attaccata alla vita la musica e alcuni pomeriggi o sere in cui ci trovavamo magari figli, nipoti e affini in giardino. Quando sentiva le note di canzoni che conosceva iniziava a cantare, magari chiedeva di cantare sempre le solite tre perché non si ricordava più di averle appena cantate ma per un momento speciale in cui la vita tornava a farsi teatro si poteva cantare “La bergera” a ripetizione e farsi trasportare nella sua vita che fu.

Era sempre lei a decidere quando era stanca e voleva andarsene, sempre portandosi dietro l’alone di chi ha appena regalato un momento speciale a chi c’era.

No, la Nonna Giulia non è mai stata una nonna canonica, a pensarci bene è stata più una donna che a volte faceva la nonna ma era la mia nonna e non l’avrei voluta diversa da come è stata.

Un pensiero riguardo “Vite che sono la mia / 5

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