Mentre i miei giorni in Occitania stanno per giungere al termine riprendo il mio diario di viaggio. Dall’ultimo post non sono successe grandi cose, anche la pioggia e il grigio che hanno caratterizzato la mia permanenza qui sono rimasti abbastanza invariati.

Martedì ho fatto due passi per le strade della vicina Béziers, città che si contende con Narbonne lo status di città più antica della regione, ma sapendo di aver poco tempo a disposizione mi sono limitata a una passeggiata distratta fino alla cattedrale, chiusa (qui almeno in inverno mi pare che tutto sia chiuso all’ora di pranzo), e poi per alcune strade a caso del centro dove ho potuto notare quel che mi aveva detto Sylvie a proposito della città: era un centro molto povero, governato storicamente dai socialisti, da qualche anno c’è un sindaco di destra che ha cominciato a restaurare i vecchi palazzi decadenti della città trasformandola. La differenza tra le aree rinnovate e quelle ancora fatiscenti è evidente. Diciamo che mentre mi perdevo per alcune strade strette, poco frequentate e sporche un po’ mi sono interrogata sulla sicurezza della zona ma credo faccia un po’ parte dei pregiudizi su ciò che non si conosce pensare che fatiscente = pericoloso. Nella bella stagione la città è vivace e vissuta, con le cosiddette ramblas piene di tavoli di bistrot e ristoranti. Béziers si trova anche sul cammino francese di Santiago. Io ne ho compreso il potenziale ma il contesto non era dei migliori.

Venerdì invece Sylvie mi ha lasciato alla Nautique, un’area affacciata su uno dei vari stagni che caratterizzano i dintorni di Narbona, mentre lei andava a fare compere per il suo giardino. Devo dire che l’ora di solitudine trascorsa prima a camminare e poi seduta lungo lo stagno mi ha rigenerato. Forse era l’effetto dell’acqua, del non avere quasi niente intorno se non un circolo nautico pressoché deserto e qualche casa delle vacanze vuota. Giusto la vicina autostrada disturbava a livello sonoro. Soprattutto era un momento solo mio. Riporto le parole annotate sul mio taccuino: La natura è ferma, anche le pale eoliche in lontananza sembrano ferme, oggi non c’è quasi vento. Lo stagno è una distesa senza colore, un po’ come il cielo velato che nasconde il sole. A tratti le nuvole si diradano e mi sembra quasi un’emozione rivedere l’azzurro.

Sabato pomeriggio invece sono stata affidata alla sorella di Sylvie, camminatrice appassionata, per portarmi a visitare degli angoli un po’ più selvaggi della zona. Abbiamo preso la macchina e ci siamo addentrate per la zona delle Corbières, un massiccio montuoso non particolarmente alto ma aspro e molto verde. Leitmotiv le vigne che, a quanto pare, sono state introdotte nella zona a partire dagli anni ’50, all’inizio il vino prodotto non era un granché e il suo maggior acquirente era l’esercito. Ci siamo fermate nel piccolo villaggio di Peryac de Mer (molto amato da giornalisti e letterati francesi, mentre lo showbiz preferisce la vicina Bages) e abbiamo cominciato a camminare. Abbiamo costeggiato il piccolo Étang de Doul con le sue acque salate in cui i locali consigliano di curare i reumatismi per poi salire e scollinare su un sistema di stagni ben più ampio. Non c’era un filo di vento e l’acqua era immobile, mentre costeggiavamo lo stagno abbiamo cominciato a vedere dei fenicotteri rosa che si era trattenuti oltre il tempo delle migrazioni. La zona è rimasta piuttosto selvaggia, salvata (forse grazie alle troppe zanzare) dall’edilizia scriteriata. Dopo circa un’oretta di cammino abbiamo ripreso la macchina per raggiungere la piccola cittadina di Gruissan, superarla e parcheggiare ai piedi del colle su cui si trova la cappella di Notre-Dame des Auzils. Circondata di pini, per raggiungere la cappella si deve percorrere un sentiero in salita costeggiato di pietre tombali e cenotafi dedicati ai marinai di Gruissan morti in mare. Dalla cima della collina si spalancava il mare, oggi un po’ agitato, col suo incessante ma per me rassicurante rumore. Sono tornata a casa ben contenta (francesismo che ho deciso di lasciare, la dice lunga su quanto francese stia parlando), avevo bisogno di cambiare un po’ aria, di camminare, di vedere degli scorci che mi aprissero istintivamente il volto in un largo e grato sorriso.

Arancio e limone che ho piantato, non si vedono l’ulivo e qualche altra pianta per cui ho scavato il terreno

Dunque dopo poco più di due settimane, martedì mi appresto a lasciare questo angolo del vino e del vento. Tra una pioggia e l’altra comunque ho trovato il modo di rendermi utile nei modi più inaspettati per chi conosce la mia sostanziale disabitudine a tutto ciò che non preveda stare davanti ad uno schermo o pensare (peraltro generalmente in termini molto astratti). Ho ad esempio portato a spasso un piccolo cane vecchio, diabetico e cieco che capiva solo l’inglese (ma, come direbbero gli anglofoni, in qualche modo “been there, done that”). Ho estirpato dell’erba, piantato degli alberi e usato una piccola sega elettrica per la prima volta in vita mia con molta soddisfazione. Ho cucinato di più in queste due settimane che nell’ultimo anno credo, in particolare pasta in varie salse corroborando il cliché sugli italiani che mangiano molta pasta e la condiscono con n’importe quoi, qualunque cosa. Ma soprattutto ho usato un trapano e una livella per montare delle mensole. Cose praticamente mai viste ma che mi hanno resa decisamente fiera in questo mio percorso di avvicinamento al lavoro manuale.

Un minuscolo passo per l’umanità ma un grande passo per me

Non ho fatto una vita particolarmente avvincente, devo ammetterlo, ma credo che non fosse questo l’unico scopo di questo viaggio. Magari avrei preferito delle situazioni in cui socializzare anche con più o meno coetanei o comunque più persone ma sono appena all’inizio e, dopotutto, ho visto che anche il viaggio, i motivi che ci guidano, quel che stiamo cercando, si apprendono realmente solo col tempo.

Di queste due settimane intanto mi tengo stretta il francese che ho ascoltato e quello che ho parlato. Il modo affascinante in cui lavora il cervello per cui a forza di sentire una parola nello stesso contesto riesce a comprenderne il significato. Gli anni di francese al liceo che acquisiscono finalmente un senso perché sto continuando quel che avevo iniziato sul finire della scorsa estate: uscire dai libri di letteratura per buttarmi nella vita quotidiana, sbagliando magari ma riuscendo a capire e farmi capire discretamente. Anzi, Sylvie mi è parsa piuttosto impressionata dal mio vocabolario (che ho peraltro parecchio aumentato in queste due settimane) e dalla mia conoscenza della grammatica francese (sempre sia lodato il liceo linguistico Capponi di Firenze). Il mio vero punto di arrivo però sarà l’utilizzo sicuro della parola carrément.

Approfitto di questo appunto sul settembre/ottobre scorso per riallacciarmi ai motivi che mi hanno spinta a partire perché credo che quell’incontro sia stata la goccia che ha fatto traboccare un vaso che aspettava di riversarsi. Non mi dilungherò sull’incontro (ne ho già scritto estensivamente nella serie delle Vite che sono la mia), e vado subito al sodo: tra le varie, tante cose che mi ha regalato e di cui sono grata più o meno ogni giorno, quell’incontro mi ha insegnato a non avere paura. Dell’altro, dell’ignoto, di essere me stessa, di aprirmi, di buttarmi, di chiedere, di rischiare, di sbagliare. Là eravamo in due e io mi limitavo un po’ a seguire e osservare, qui invece sono da sola e tutto dipende da me. Ecco, tra le motivazioni di questo viaggio ci metto anche questa: superare la paura. Con coscienziosità ovviamente, perché sempre io rimango, ma uscendo dal mio angolo sicuro e conosciuto.

La prossima tappa è un detour: visto che sono vicina al confine vado in Spagna per qualche giorno. Al rientro mi aspetta uno di quei percorsi che a forza di viaggiare probabilmente si impara a evitare: dalla quasi costa mediterranea alla quasi costa atlantica con tre treni, un autobus (forse due, ancora non ho deciso) e un tempo di cambio di 22 minuti che se mancato significa probabilmente un pernotto a Tolosa. Quando mi interrogo sulla ragionevolezza di questa tratta un po’ mi dico che non ne ha, un po’ ho fiducia e un po’ mi faccio forza di una delle frasi che mi capita più spesso di canticchiarmi quando sono in viaggio: per la stessa ragione del viaggio, viaggiare.

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