Prima di partire, una mia amica mi ha invitato a scrivere, ma di farlo emozionalmente, come facevo quando inviavo i miei resoconti dal viaggio della scorsa primavera, non come mero diario più o meno quotidiano di quel che faccio o non faccio. Le ho risposto che allora i post che mi uscivano peggio erano quelli figli di momenti un po’ meno sereni. Lei mi ha risposto che l’importante era che si cogliesse l’emozione, anche quella negativa. La sua risposta mi ha ricordato uno degli insegnamenti di Sergio Staino, probabilmente ascoltato di sfuggita mentre dava una qualche intervista al telefono, ma che ha iniziato a scavare un cunicolo che ho, di fatto, percorso nel raccontare il mio viaggio in Workaway. Staino sosteneva l’importanza della sincerità quando ci si racconta. Il suo Bobo, senza l’onestà dei suoi difetti, delle sue piccole miserie, dei suoi sogni infranti, delle sue delusioni, non avrebbe potuto raccontare l’Italia che si riconosceva nelle sue stesse speranze.
Forse questa premessa avrebbe trovato posto più consono all’inizio del primo post ma ci ho pensato solo ora perché solo ora racconterò questi primi giorni parigini fatti di sentimenti alterni.
Sono arrivata mercoledì mattina in un misto di inconsapevolezza e ottimismo. I miei due bagagli di medio/alte dimensioni dichiaravano apertamente che stavo viaggiando diversamente dal solito, io che ormai mi sono specializzata in zaino in spalla e poco più (per il viaggio in Workaway sono partita con un 50 litri e un altro zaino più piccolo per il trasporto del computer e delle cose da avere pronta presa durante gli spostamenti tipo taccuino, acqua, portafoglio, ereader), eppure su di me aleggiava la forza di chi era sicura della sua scelta. Non che non lo sia anche ora, anzi, sono colpita io stessa dalla solidità con cui sto affrontando le inevitabili difficoltà derivanti da un trasferimento con niente in mano, ma la mattina del mio arrivo ne vedevo tutti i lati positivi e neanche affrontare la metro parigina (e cinque tortuosi piani di scale) con uno zaino di circa dieci chili in spalla e una valigia di circa venti ha scalfito il mio ottimismo. Il risveglio dal sonno di piombo che mi sono concessa prima di pranzo per riprendermi dalla sveglia alle 3.45 mi ha però colta impreparata e timorosa ma convinta che appena svegli non si dovrebbe prendere sul serio alcun tipo di decisione o sensazione. Dopo aver mangiato i due panini che mia madre (santa donna) si era offerta di prepararmi alle 4 del mattino, sono andata in una breve esplorazione del quartiere alla ricerca sia del luogo in cui ritirare un pacco col copri materasso del letto, sia un bar o pub in cui presumibilmente poter vedere la semifinale degli Europei di calcio femminile tra Francia e Germania. Altri cinque piani di scale e poi lo spauracchio di chiunque si sia totalmente disabituato alle gestione di una casa: la spesa e la scelta dei pasti sapendo che dovranno essere basilari e con poco gusto vista la temporaneità dell’alloggio e la volontà di non caricarmi eccessivamente di cose che tra una decina di giorni dovrò spostare di qui. Sono pur sempre temporaneamente poco più che accampata e dormo in un sacco lenzuolo (troppo pesante portarsi lenzuola senza sapere che letti troverò in futuro) con come cuscino una copertina trovata qui e qualche maglietta.
Dopo cena (riso in bianco e hamburger, per i curiosi) è stato con grande forza di volontà che mi sono imposta di affrontare un pub, ossia quel che mi pare il luogo di incontro per eccellenza, da sola. Individuato un posto libero al bancone, con televisore ben visibile, mi sono accomodata, ho ordinato una birra e l’ho centellinata come le cose preziose che non si vorrebbero finissero mai. Non tanto per il sapore, una banalissima bionda, quanto perché già era un investimento la prima, non avevo alcuna intenzione di aumentare il capitale con la seconda.
Da viaggiatrice solitaria devo confessare che sono una grande amante degli incontri estemporanei. Da viaggiatrice solitaria devo confessare che raramente mi sono trovata ad intrattenere conversazioni con sconosciuti o sconosciute che durassero più di cinque minuti. Quella scena da film per cui si è al tavolino di un bar e a un certo punto si avvicina l’uomo/donna della vita non si è mai veramente verificata. Non mi sono mai neanche avvicinata io, questo è vero, ma, ora che ci penso, sono stata molto spesso l’unica persona sola della mia età in un dato luogo.
A giudicare dall’incontro avvenuto all’interno del pub, penso anche che talvolta si vive meglio senza. Per carità, il ragazzo in questione era innocuo, ma per circa 20 minuti mi sono dovuta sorbire il suo alito caldo alcolico troppo vicino per i miei gusti, per non parlare del suo avvicinarsi sempre di più mettendomi pure il braccio intorno alla schiena per dirmi cose che altrimenti il volume della musica sopprimeva. Quando gli ho detto che venivo da Firenze mi ha detto che era un violinista e che aveva vinto un concorso al Maggio, magari era anche vero e magari sarebbe anche stato interessante parlarci di più ma in quel contesto, con la partita in tv, la musica troppo alta e il suo alito alcolico, l’ultima cosa che avevo voglia di fare era parlare. Quando durante l’intervallo ho preso il telefono per scrivere qualche messaggio deve aver capito che non ero interessata e dopo altre bevute ha puntato il gruppo di giovani studentesse americane accanto a me.
Il giorno dopo invece sono andata più sul familiare: ho incontrato la mia amica Giulia per pranzo. Senza idee e senza voler rischiare spese folli ci siamo incontrate al Faubourg Saint-Denis per mangiare da Urfa Durum, un piccolo locale curdo con 8-10 posti dai tavolini bassi sul marciapiede fuori. Lo avevamo provato durante il mio passaggio del mese scorso e ci era piaciuto. Si può scegliere tra 5 o 6 wrap (pollo, manzo, agnello, vegetariano, altro che non ricordo) abbondanti e gustosi da accompagnare, volendo, con una bevanda fresca a base di yogurt salato. Al di là della bontà a buon prezzo del pranzo, è proprio la zona che brulica di vita quotidiana fuori dai grandi classici del turista in città. Alle uscite delle metro venditori propongono le loro merci ad altezza ginocchia di chi cammina seduti su seggioline basse; nelle stradine circostanti può capitare di trovare un’intera strada dedicata a parrucchieri di chiara origine africana e anche attraversarle riporta più in una ex colonia che a Parigi creando questo mix bizzarro di atmosfera africana calata nell’architettura parigina. Nella zona la Francia si mescola con le colonie.
Dopo pranzo abbiamo camminato in direzione Marais alla ricerca di una libreria italiana il cui proprietario è un ex compagno di una mia zia rimasto in contatto con la famiglia. Sono andata senza preavviso e con la faccia tosta di chiedergli un aiuto a districarmi nel mondo del lavoro francese a partire dal mio curriculum e, perché no, se avesse un lavoro per me. Sfortunatamente Fortunato è andato in pensione da due anni, non vive neanche più a Parigi e i due posti nella sua libreria sono già occupati. Ho però parlato col ragazzo che ha preso il suo posto e una ragazza che stava comprando un libro mi ha dato qualche dritta.
Il modo più facile per trovare lavoro quando si arriva a Parigi come me è la ristorazione o cercare nel grande mercato delle ragazze alla pari. Confesso che la ristorazione mi fa paura e non la sento totalmente nelle mie corde, meglio un bar di quartiere casomai, e confesso che, benché la ragazza alla pari risolverebbe entrambi i grossi problemi dei trasferimenti a Parigi (lavoro e casa), temo un po’ di venire risucchiata in una vita in cui la mia autonomia è comunque limitata e non so quanto l’ambiente di “lavoro” potrebbe aiutarmi a crearmi una rete di rapporti in città. Mi sono però data dell’altro tempo per continuare a inviare curriculum a destra e sinistra come non ho mai fatto in vita mia perché, questa è un po’ la mia grande tragedia, lavoro e lavoricchio da quando ho sedici anni ma non ho mai dovuto cercare un lavoro, il lavoro ha sempre trovato me.
Ho momenti di sconforto in cui mi dico che comunque sto facendo qualcosa tipo cercare di districarmi nelle complicazioni burocratiche del Pole Emplôi (il Centro dell’Impiego francese) andando fisicamente lì o andare fisicamente a vedere un negozio legato ad un’associazione per cui mi interessava inviare una candidatura solo per trovarlo chiuso; momenti di solitudine (mi sono addirittura iscritta a Tinder scrivendo nel profilo che sono nuova in città e cerco amici e ho scritto un post con lo stesso scopo in un gruppo di Italiani a Parigi); momenti di fatica (scrivere lettere di motivazione lo è e viene richiesta una lettera di motivazione anche per candidarsi al ruolo di portiere di un’università) ma ancora non ho momenti in cui mi chiedo chi me lo abbia fatto fare e cerco di spingermi a fare cose, anche da sola, che altrimenti magari non avrei fatto. Tipo farmi 25 minuti di metro il sabato sera per andare in un locale che non conosco (L’International), in un quartiere che non conosco (Oberkampf) a sentire dei gruppi (matrice grunge e rock psichedelico) che non conosco e pensare che forse quel tipo di quartiere mi piace e quanto sarebbe bello suonare in uno scantinato buio in cui sembra che la musica dal vivo sia riportata alla sua essenza di carne e sudore.
Tra una questione burocratica e l’altra ho fatto (e mi appresto a fare oggi) anche un po’ di turismo ma credo sia la parte meno interessante di questo viaggio. Per quanto capisco il fascino della Torre Eiffel che avevo sempre saltato nei miei passaggi in città successivi al 2005. Ci sono andata, ho detestato il piccolo commercio di souvenir a poco prezzo e bevande che la circonda, ho sospirato davanti ai turisti in posa per foto tutte uguali, ho pensato di fare il biglietto per salire ma poi mi sono anche detta che contavo di avere tempo in bassa stagione e sono tornata a casa.